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Le parole sul banco degli imputati. Del perché la TAV va sabotata

Uno scrittore al suo meglio istiga alla lettura e qualche volta anche alla scrittura. Pasolini mi istigava a formarmi un’opinione in disaccordo con lui. Era un intellettuale, la cui funzione è quella di rasentare i confini di un pensiero, fornendo così al lettore il perimetro dell’argomento. Chi invece asseconda l’opinione prevalente, l’intruppato al centro, toglie dal suo impasto il lievito e il sale. Chi fa il moderatore della propria moderazione si sottrae al compito […]

(Erri De Luca, La parola contraria)

 

In verità cantare è un altro respiro, scriveva nel 1922 il buon Rilke, lasciando intravedere una profonda intimità tra il puro fatto del poetare e il semplice bisogno di respirare. Se le cose stanno così, allora, le parole sono tanto naturali quanto l’aria che emettiamo dalla bocca. E, quindi, perché una parola dovrebbe essere meno naturale di un’altra, perché una mera accozzaglia di fonemi risulterebbe pericolosa o, addirittura, istigherebbe alla violenza? Misteri della fede? No, misteri della Digos. Chiedetelo a Erri De Luca se ci crede ancora nella naturalezza delle parole dopo aver ricevuto la visita, la sera del 24 febbraio 2014, dei questurini romani, muniti di copia di avviso all’indagato. Indagato? E per cosa? “Per avere, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, pubblicamente istigato a commettere più delitti e contravvenzioni ai danni della società LTF sas e del cantiere Tav LTF in località La Maddalena di Chiomonte (To), area di interesse strategico nazionale”. Qualche mese prima De Luca aveva indicato nel “sabotaggio” l’unica possibile alternativa per far comprendere a governanti e opinione pubblica la sacrosanta inutilità di un’opera come la TAV. Un paio di cesoie per tagliare il filo dell’imbarbarimento paesaggistico, architettonico e ambientale. Oggi le cesoie, ieri gli zoccoli (sabots, appunto), quelli che gli operai licenziati, durante la rivoluzione industriale, scagliavano con veemenza negli ingranaggi dei telai a vapore per danneggiarli. Da lì, sabot-aggio: un mezzo d’azione diretta per interrompere il circolo vizioso dello sfruttamento padronale. E così, più d’un secolo dopo, un intellettuale del calibro di De Luca avrebbe “istigato” al sabotaggio, scagliando non zoccoli, ma parole. I pubblici ministeri, forse, non serberanno memoria dell’origine sanscrita del verbo “istigare”, la cui radice “-stig” sta semplicemente per “pungere”. E sì, cari magistrati inquirenti, perché se voi emanate provvedimenti restrittivi ergendovi a fini linguisti, noi vi rispondiamo sullo stesso terreno. “Istigare al sabotaggio”, ovvero premere affinché si lancino degli zoccoli. Un po’ come la nonna che, irritata, scaglia la “tappina” contro il pestifero nipote. Un atto di rivolta semplice, naturale, spontaneo. Vagamente surreale, no? Così come surreali sono le accuse mosse in nome del linguaggio, della libertà di stampa, opinione o scrittura. Come possiamo concedere che la letteratura finisca dritta sul banco degli imputati? Istigare, scrive De Luca nel suo libricino-difesa La parola contraria (distribuito fuori dal tribunale durante le udienze), vuol dire “agire sulle fibre nervose” di chi ascolta, vede o legge, spalancare porte prima chiuse, aprire inattesi orizzonti. Orwell istigò De Luca all’anarchia con Omaggio alla Catalogna; De Luca, oggi, coltiva l’intimo desiderio di istigare centinaia di militanti, cittadini o semplici lettori al sabotaggio, se questo vuol dire opporre resistenza allo stupro di un territorio che non è proprietà di nessuno, ma bene comune di tutti quelli che lo hanno abitato e continuano a farlo.

E, allora, la TAV va sabotata in nome di tutti i nostri maestri, buoni o cattivi che siano. Perché se muore il dissenso e tace la disobbedienza, muore anche un po’ il senso delle parole. Parole come “istigazione”, “sabotaggio”, parole spedite dritte sul banco degli imputati. Ed è proprio dal senso e dalla forza delle parole che parte la difesa di Erri De Luca, in un processo alla storia della lingua e alla libertà di pensiero, in cui tutti sediamo dietro quel banco.

Giuseppe Bornino

 

 

 

 

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