La questione kurda, si protrae dagli inizi del novecento affondando le sue “radici moderne” nei trattati di Sévres e di Losanna, dipanandosi fino ai giorni nostri e offrendo la sua drammatica attualità in un momento in cui i media ci offrono le immagini dei kurdi come difensori di valori comuni contro le barbarie del califfato nero. Sembra improvvisamente che tutti parlino del popolo kurdo e che celebrandone l’esistenza si risolvano tutte le loro difficoltà.
Ma la fluidità del puzzle geopolitico mediorientale gioca un ruolo, di volta in volta determinante, nella sua episodicità per rendere più vicina o più lontana la realizzazione di una legittima richiesta che spesso sfuma i propri confini nel sogno.
Anche se la tentazione di inseguire gli altri percorsi di osservazione e valutazione in Iraq, Iran e Siria è forte, tuttavia la posizione della Turchia risulta sempre cruciale in quanto è lo Stato i cui confini toccano tutti gli altri paesi sui quali ricade il problema kurdo e li coinvolge costantemente per soffocare le istanze di libertà di quel popolo. La Turchia si fa portavoce di quella pax turcica che può esercitare in piena sintonia con gli altri Stati firmatari di accordi bilaterali e con l’appoggio incondizionato di un’ America che le ha riconosciuto il ruolo di frontiera orientale anticomunista prima, e di argine contro la deriva islamica radicale, dopo.
La sua volontà di entrare nell’Unione Europea, ha portato la Turchia ad intraprendere vari tentativi di modifiche legislative allo scopo di armonizzarsi con i parametri imposti dalla Comunità Europea e di raggiungere soglie di qualità democratica tramite l’abolizione della pena di morte e la concessione di più ampie libertà di espressione. Di contro l’Europa, in numerose risoluzioni, si è espressa sui diritti del popolo kurdo denunciando le violazioni operate dalla Turchia dando, perlomeno, l’impressione che la Turchia fosse osservata nei suoi comportamenti antikurdi.
Ma le pressioni dei potentati economici e degli interessi strategici occidentali hanno visto da sempre nel problema kurdo una minaccia per quello status quo che garantiva comunque gli interessi di tutti e la conflittualità del Kurdistan è stata relegata a un problema interno degli Stati, nei confronti del quale la Turchia si è intestata il ruolo di gendarme.
Nella contemporaneità si affaccia un nuovo protagonista costituito da quella parte dello stesso popolo kurdo non più residente entro i confini naturali, bensì all’estero. Quel popolo che le vessazioni e gli sradicamenti scientificamente perpetrati ad opera dei turchi hanno portato a una diaspora di enormi dimensioni e che adesso costituisce dei motivati gruppi di pressione in quegli Stati che lo ospitano e nei quali esso vive con entusiasmo la libertà di poter esprimere la propria cultura e cullare il suo senso di appartenenza.
Questo spinge l’opinione pubblica internazionale a prendere consapevolezza e contezza di un problema del quale, forse, si conosceva soltanto l’esistenza attraverso l’immagine distorta che unilateralmente veniva offerta da un’ottica limitata e interessata. Si comincia così a scalfire, sotto la spinta di un sentire che si fa sempre più comune, “il principio di sovranità in virtù del quale valeva la regola par in parem non habet iurisdictionem e che escludeva qualsiasi forma di intervento esterno negli affari interni di uno Stato ed escludeva che un conflitto internazionale si concludesse con un processo davanti a una Corte di Giustizia.”[1]
Un grosso freno alla soluzione del problema viene comunque dato dalla posizione ondivaga dei vari Stati europei che non assumono atteggiamenti individuali in attesa che si pronunci l’UE e quindi offrono azioni tanto isolate quanto inefficaci e non sostanziano con le loro posizioni le risoluzioni dell’Unione. Riuscendo così soltanto a procrastinare la soluzione di un problema politico sociale che ormai sta acquisendo caratteri di drammaticità tenendo conto delle tensioni e dei focolai di violenza che sempre più catturano il malcontento delle popolazioni che vivono in condizioni sociali arretrate, come per esempio quelle della Turchia Sud Orientale e che potrebbero farsi coinvolgere da estremismi di vario genere.
In questa situazione, una prospettiva per il raggiungimento della pacificazione, la offre Ӧcalan dall’isola fortezza di İmrali: “un homme est au centre de ce processus: Abdullah Ӧcalan. Accepté par amis et adversaires comme le leader national e le representant politique du peuple kurde, il est le policitien kurde le plues en vue. Plus de 3,5 milions de kurdes ont signé une déclaration le reconnaissant comme leur représentant politique.”[2]. Egli nei suoi scritti da prigioniero, pur esprimendo in maniera puntuale e articolata l’amarezza per i tradimenti vari ma univoci dei paesi europei, pensa che la propria condizione possa essere utile per poter percorrere la via della pace. Egli con chiarezza aveva pensato che il luogo privilegiato ove rappresentare e risolvere la situazione kurda fosse l’Europa, innanzi tutto perché in essa e da essa il problema si era creato, e in essa si doveva risolvere in ragione dell’avvicinamento della Turchia all’Unione Europea.
Di nuovo invece l’Europa aveva mostrato di anteporre i suoi interessi economici ai pur sbandierati interessi per l’affermazione dei diritti umani. Una volta giunto di fronte a una condanna a morte, che è sospesa come una spada di Damocle sulla sua testa, egli individua il senso della sua vita nella costante testimonianza della sua volontà di pacificazione, rinvenendo la positività nella negatività che lo circonda.
Quando la sua condanna a morte è stata sospesa da una direttiva della Corte Europea dei diritti dell’uomo [3], sembra allora ad Ӧcalan di aver avuto ragione a credere nell’Unione Europea nell’ambito della quale si poteva individuare la strada in favore della pace, della libertà e anche della vita. In questa ottica gli riesce facile accettare con umiltà la sua situazione di condannato della quale egli pur avverte l’enorme ingiustizia, soprattutto nel trattamento riservatogli e nelle motivazioni con le quali è stata pronunciata la sua sentenza. Egli invita alla pace come unica strada vantaggiosa da intraprendere sia da parte del Governo turco che dal PKK, rievocando quanto nella storia della Repubblica il popolo kurdo sia stato fondamentale per il conseguimento dell’unità nazionale e quanto il valore dei suoi uomini sia stato presente nella guerra di liberazione.
Invita quindi a ritornare a vivere la strada della pace ritrovando quella storica fratellanza sulla quale venne fondata la Repubblica e davanti alla quale è impossibile negare i diritti del popolo kurdo. Tutto ciò egli evoca, pur nella salvaguardia assoluta dell’unità dello Stato, di quella integrità territoriale che egli valuta come suprema garanzia di sicurezza per uno stato moderno, infatti “anche se potrebbe sembrare una contraddizione, tuttavia non si deve dimenticare che ogni unione si forma dalla sintesi degli opposti”[4].
La decisione per il raggiungimento di questi obiettivi è tutta politica perché si pone nei termini del perseguimento di una vera e compiuta democrazia. L’alternativa a tutto ciò sarebbe una escalation del conflitto che rappresenterebbe l’esercizio del diritto di una legittima difesa.
Questo processo di pace dovrebbe coinvolgere l’intera Società rinnovandola e affrancandola da quei retaggi di feudalesimo che ancora ne inficiano il progresso. Egli invita alla sottoscrizione di un nuovo contratto sociale che accordi ai kurdi la stessa ampiezza e tutela dei diritti che riconosce ai turchi e porti, anche le forze più reazionarie, a cedere le loro posizioni a vantaggio di una vera pacificazione. Assegna alle forze di sinistra e alla social democrazia il ruolo di coinvolgere tutte le altre forze politiche e condurre verso l’attuazione di questo processo allo scopo di non consegnarlo nelle mani di coloro che per tanti anni hanno cercato di bloccarlo.
I costanti richiami di Öcalan però vengono arginati nel momento in cui sembrano sortire il maggior effetto. Attualmente in prossimità delle elezioni politiche l’AKP di Erdoğan deve fronteggiare una nuova serie di attentati in risposta ai quali la reazione sembra acquisire legittimità. La matrice di questi attentati sembra essere spudoratamente chiara. Altrettanto chiaro è il volto che appone Erdoğan.
Di Gabriele Leone
[1]Portinaro, P., I conti con il passato, Feltrinelli, Milano, 2011, p.16.
[2]http://www.freeocalan.org .
[3]Articolo 2 della Cedu.
[4]Ӧcalan, A., Il PKK e la questione kurda nel XXI secolo, Edizione Punto Rosso, Milano, 2013, p. 308.