Appena rientrato dal 1° maggio milanese, provo a sintetizzare quello che mi è passato di fronte agli occhi.
Ho visto, innanzitutto, un lungo e brulicante serpentone composto da “blocchi” solo apparentemente separati tra loro, un serpentone composito, ma con un’anima vociante all’unisono, l’anima di un popolo in rivolta che grida “No Expo”, ma intende “No agli sgomberi, agli sfratti, ai pignoramenti, No alle grandi opere, No al lavoro gratuito, No alla logica del profitto a ogni costo, No alla distruzione scriteriata dei territori, No al dominio delle multinazionali, No alle passerelle”.
Poi ho visto una città, Milano, militarizzata all’inverosimile, una città presidiata in ogni suo più riposto angolo da mezzi, uomini e cancellate, una città pronta a fronteggiare l’avanzata di oltre 20000 teste, come fossero ciascuna quella d’un nemico giurato da combattere preventivamente.
In barba ai proclami della vigilia, che assicuravano l’assenza di “zone rosse”, il corteo si è trovato, invece, letteralmente accerchiato da ogni lato. Strategia “furba” quella delle forze dell’ordine, strategia che, però, ha inevitabilmente creato dei “catini” senza via di fuga, all’interno dei quali s’è accesa la miccia della rabbia popolare. Sì, popolare, perché la manfrina del “blocco nero”, degli anarchici impazziti, delle mine vaganti, dei delinquenti occasionali, dei frustrati dell’ultima ora, dei professionisti del disordine, deve finire, una buona volta per tutte.
Chi a Milano, il 1° maggio, ha deciso di esprimere la propria indignazione nei confronti di un “modello” che affama, invece che nutrire il pianeta, alzando l’asticella del conflitto, non è, come le maggiori testate nazionali o le Prefetture vorrebbero lasciarci credere, né un black-block, né un “figlio di papà” con il vizietto della distruzione, né un figurante. Occorre operare subito delle distinzioni, per evitare il classico “gioco al massacro” in salsa tipicamente italiana.
Abbiamo sempre bisogno del “capro espiatorio”. Così, giornali, politici, forze dell’ordine, commentatori d’ogni sorta e tipo, hanno sin dalle prime battute individuato il centro della pestilenza in chi ha spaccato qualche vetrina, incendiato automobili o lanciato alcuni “bomboni”. C’è chi lo ha fatto in modo scriteriato, random, senza obiettivo “politico”, è vero, ma c’è anche chi ha deciso di “sanzionare” luoghi simbolici, concentrati di potere fatti di calce e cemento. L’uso della forza (cerchiamo di non inorridire di fronte a questo termine!) fa parte del conflitto, inutile nasconderci dietro un dito ammantato di moralità e buone intenzioni. Ma c’è modo e modo di praticarla. O meglio, c’è un modo che è figlio di “pratiche”, di un disagio reale, di un’esigenza incombente, e un modo “idiota” che è mero sfogo animalesco.
Non erano 30 o 40 i giovani che nel catino di largo Paolo D’Ancona hanno fronteggiato le forze dell’ordine, ma 400, forse di più. Quindi, reclamare la gogna per i manifestanti più furenti servirà solo a ingrossare le già straripanti patrie galere, ma non a risolvere un problema che è di natura sociale, prima che politica o economica. Se c’è una fetta consistente di corteo che sente il bisogno d’esprimere veementemente il proprio dissenso, significa che esiste un modello di governo cieco e repressivo che ha portato a ciò. Nessuno vorrebbe vedere macchine incendiate, siano esse utilitarie o berline, ma non siamo nel mondo dell’utopia, dei sogni o dei desideri. Siamo nel mondo, di contro, dove i diritti, negati su più fronti, pare debbano essere ottenuti “a spinta”, dato che ogni tentativo di mediazione (partitico, sindacale, ecc.) si è sempre rivelato fallimentare. E allora, ecco lo sciamare del “movimento”, l’esplosione del conflitto, la barricata.
Tutti fini ermeneuti nel leggere l’uso della forza da parte dei manifestanti come pura violenza, ma perché non ribaltare il piano dell’analisi? Le azioni del 1° maggio milanese nascono da lontano, sono figlie di un attacco ben più radicale, quello di uno Stato che affama e reprime, portando diverse soggettività all’esasperazione. Senza casa, lavoro e reddito non c’è dignità. E chi è oggetto di continui soprusi, ormai, s’è decisamente stancato. Possiamo continuare a parlare di “blocco nero”, di rivoltosi scapestrati, ma sarebbe solo un pietoso tentativo di tapparci gli occhi di fronte a una piazza meticcia e “incazzata” che chiede diritti e non grandi eventi.
E allora, gli scontri del 1° maggio milanese recitano tristemente, e per l’ennesima volta, il de profundis di partiti e organizzazioni, riaffermando l’esistenza di due “ordini del discorso”, quello “poliziesco” della “politica”, della triade (Ocalan docet) capitalismo-industrialismo-nazionalismo, e quello “conflittuale” dei movimenti, un discorso nuovo, quest’ultimo, che rappresenta, direbbe Foucault, non solo “ciò che manifesta o nasconde il desiderio, non semplicemente ciò che traduce le lotte o i sistemi di dominazione, ma ciò per cui, attraverso cui, si lotta, il potere di cui si cerca d’impadronirsi”.
E allora, è in questo senso che dobbiamo lavorare, al fianco degli insorti di Milano, per dare corpo a un nuovo ordine del discorso, a un nuovo linguaggio che, oggi, ha ancora bisogno di incendiare un’automobile, ma, domani, chissà, potrà esprimersi diversamente.
#NoExpo