Zibaldone

Francesca Woodman: il genio fragile della fotografia

Un interno diroccato, un corpo nudo che, quasi misticamente, si offre e, allo stesso tempo, si cela allo sguardo altrui, confondendosi, in una sorta di panteismo estetico, con pezzi consunti di carta da parati. C’è molto della poetica di Francesca Woodman in questo scatto; c’è la ricerca di un’identità perduta, nascosta, un’identità che rimane impenetrabile soprattutto per la Woodman stessa. Tutta la sua produzione fotografica, forse, non è stata altro che un continuo rincorrere il soggetto che non c’è, il soggetto che sfugge, che lotta contro i limiti stessi dell’immagine fotografica, che si trasforma in simulacro, posa fantasmatica. C’è molto del “disorder” che dà il titolo a una delle rubriche del nostro programma, nell’arte della Woodman, c’è quel tentativo inconscio di mostrare, con la spontaneità di un gioco puerile, il “reale funzionamento del pensiero”, direbbe Breton. Ma in che misura, la fotografia della Woodman può essere definita surreale? Innanzitutto, scartiamo due o tre sensi del termine, buoni solo per i manualetti d’arte a 4,99 euro. Surrealismo non vuol dire semplicemente astrazione disincarnata, mondo parallelo o dimensione onirica; surrealismo è l’infinità del pensiero che invade la realtà, la molteplicità prospettica che aspetta di essere espressa, la contraddizione che si fa carne, perché a essere contraddittorio e frammentato è, anzitutto, il nostro stesso pensiero. Così, la Woodman delimita, corona lo spazio, ma, al contempo, lo rimodella, lo aggredisce, tenta di abbandonarlo, proprio per mostrare che nulla è realmente come appare, che non c’è una versione logica e univoca di ciò che si staglia di fronte ai nostri occhi.

P018-4/4, 11/30/05, 2:10 PM, 16G, 3936x3876 (709+964), 100%, Cruz 080205, 1/120 s, R67.3, G57.4, B71.7

In un secondo scatto, emerge un altro tratto peculiare della poetica della Woodman, vale a dire l’uso del corpo come linguaggio. C’è il perenne tentativo nelle sue foto, infatti, di organizzare lo spazio in base alla posizione del corpo prescelta, e non viceversa. Troviamo, in questo scatto di cui vi sto parlando, una Woodman che gattona, uscendo furtiva da dietro l’angolo di un muro, su cui è appoggiato uno specchio, dentro il quale Francesca si specchia quasi sorpresa. Qui, è proprio la posizione del corpo a comunicarci il senso della foto, quello di una fisicità che emerge in tutta la sua fragilità e indeterminatezza.

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Un ultimo scatto, che vogliamo condividere con voi, fa parte del “ciclo” “Fish calendar- 6 days”, realizzato a Roma nel novembre del 1977. Foto che sono la testimonianza di come la tecnica fotografica (quella dello “Still Life”, della “natura morta”, nello specifico), nella Woodman, fosse a servizio di un’idea di spazio e corpo ben precisa, un corpo che deborda, soffre, un corpo simbolico che ricorda, in questo caso, alcuni busti di Magritte.

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Link utili:

Il piccolo museo romano di Giuseppe Casetti, curatore dell’unica mostra personale di Francesca Woodman

@Redazione La kultura è una verdura

 

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