Tiritera

Monografia: There’s a riot goin’ on (MINT)

Marvin: “What’s goin’ on”

Sly:”There’s a riot..”

Il funk è un genere musical associato automaticamente alle good vibrations, al groove e al “ma quanto sono bravi i bassisti neri”. Questi concetti nel corso degli anni sono stati abilmente sintetizzati da parte delle etichette dando al consumatore un immagine riduttiva.

Nel 1971 non era così, il soul era uscito dalle chiese già da un po’ e l’america stava realizzando che l’estate dell’amore era finita. Era in atto una rivoluzione, non soltanto sonora.

Si parla di ”There’s a riot goin’ on” uscito il 20 Novembre del 1971 per la Epic Records, noi di Mint lo abbiamo ascoltato insieme a Giuseppe “Kerò” Rimini e abbiamo scelto per l’occasione cinque brani da commentare.

“Sly & the family stone” sono una grande famiglia che ha regalato al mondo già quattro successi discografici e una memorabile prestazione a Woodstock. Se James Brown ci ha insegnato cos’è il groove Sly Stone (in compagnia di altre band come Funkadelic) lo ha reso psichedelico.

Ed è così che la Epic vuole subito un altro disco da parte da questi ragazzi che avevano già ottenuto dei risultati sensazionali con “Stand!”, ma c’è qualcosa che non va. Proprio come le tensioni sociali in America la band stava passando un momento difficile. I rapporti interni soprattutto fra i fratelli Stone e Larry Graham si stavano deteriorando e le Black Panthers facevano pressioni affinchè il gruppo diventi schierato e militante. Sly ha il suo crollo, tuttavia riceve il messaggio e fa un passo indietro.

Egli si chiude in studio e la Epic fa uscire un Greatest Hits. Fitta una villa a Bel Ai a 12.000 dollari al mese e si fa montare il suo personalissimo studio segreto dietro unn libreria, mentre la casa era circondata da guardie del corpo, pistole, groupies, litigi, e da un flusso costante di ospiti illustri, da Ike e Tina Turner a Bobby Womack. Tuttavia molti dettagli dell riprese restano un mistero.

”There’s a riot goin’ on” per tutti questi motivi è la pura essenza di Sly Stone, è black music autentica. Se leggete di Sly non basatevi soltanto sulle parole di chi è stato cacciato come Dave Kapralik o di chi si concentra solo sulla sua dipendenza. La fuga dal mondo reale lo porta alla scoperta di un sound primordiale fatto di un miscuglio di vari generi. Il massiccio uso di tecniche di dubbing creano una seducente e torbida fanghiglia sonora e fanno di lui un precursore.

Feel so good inside myself, Don’t want to move

Il disco inizia con queste parole, “Luv ‘n’ Haight” è il lamento di uno Sly Stone rinchiuso in se stesso. I cori isterici non mentono e sono immersi in un ritmo vibrante e una chitarra soffocata da wah wah hendrixiani. Il clima è agitato ma tutto è più smooth, più cupo, questo disco sin dal primo brano prende le distanze dal macismo della psichedelia rock. Il sound si epura da tutto ciò che può lontanamente richiamare la musica dei bianchi.

C’è una cattiveria di fondo dal sound fino alla copertina, un ironica bandiera stelle e striscie con dei soli al posto delle stelle, se non fosse per l’adesivo “Featuring the Hit Single ‘Family Affair'” applicato dalla Epic Records.

Difatti la maggior parte della fortuna del disco all’epoca la fece proprio il singolo spaccaclassifiche “Family Affair”, prima hit popular a fare uso di una drum machine (Maestro Rhythm King). Rose Stone apre il brano con il bellissimo ritornello a ripetizione seguita dal timbro caldo e conturbante di Sly che canta le gioie e i dolori della famiglia fino al ritorno della sorella quando si lascia sfuggire un paio di gemiti quasi ad imitare un bimbo che piange. Il piano elettrico di Sly è supportato da Billy Preston che abbellisce il brano e delicatamente accenna a una versione più arzilla di Riders on the Storm (uscita lo stesso anno).

Watch out, ‘cause the summer gets cold

La cullante e meditativa “Africa Talks To You “The Asphalt Jungle” è il primo squillo della coscienza di Sly persa nel caos del lusso sfrenato. La drum machine è come un cronometro amplificato che viene spento e accesso ogni quattro secondi, seguono un riff di basso, una chitarra acuta che mi piace pensare sia Ike Turner e qualche organo funky, unendo il tutto in un groove fantastico che potrebbe andare avanti per sempre, per quanto mi riguarda. Il miglio esempio del funky multi-etnico che Sly voleva esprimere.

And they said I had a limp and then they tried to pass around I was a pimp

Il tono cupo del disco è momentanamente portato via da Spaced cowboy, la “The joker” del disco. E’ una vera anomalia nella discografia della band che mescola un po’ alla Frank Zappa atmosfere country deformate e vocalizzi jodel che spesso sfumano in risata.

Thank you for lettin’ me be myself again

Il disco si conclude con, Thank You For Talking To Me Africa, una straziante rivisitazione di Thank You (Falettinme Be Mice Elf Agin) di qualche anno prima. Anche se il testo della canzone è rimasto lo stesso non suona trionfante come la prima versione. Sa di redenzione, grazie all’interpretazione vocale di Sly che da un nuovo senso alle parole rendendola un’immagine speculare raccapricciante dell’originale. Non a caso cambia anche il titolo e l’Africa è come se rappresenti la sua coscienza, la sua spiritualità che mette in discussione il successo ottenuto fino ad allora.

“Grazie per avermi permesso di essere di nuovo me stesso” adesso ha un altro significato.

Tony Leaf

PODCAST DELLA PUNTATA

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