Ripartire dal calderone ribollente delle banlieues, delle periferie parigine, per interpretare i sanguinosi fatti di pochi giorni fa senza cadere nella retorica del terrore, della paura, dello scontro tra civiltà, della guerra totale, del pericolo delocalizzato. Una retorica che, spesso, fa più morti di qualsiasi attentato. Le banlieues, in queste ore, sono oggetto di un’ossessiva attenzione mediatica, poliziesca e governativa, perché considerate culle dell’estremismo, del fanatismo, perché considerate la casa dei professionisti, o presunti tali, del terrore. Anche noi vogliamo puntare il nostro faro sulle banlieues, ma per smarcarle da tutto ciò, riconsegnandole alla loro vocazione originaria, quella di laboratori meticci che hanno prodotto e producono cultura, arte, musica, letteratura, con l’urgenza di chi non può aspettare, con l’urgenza di chi è lontano dall’otium ciceroniano, perché legge dietro ogni idea un bisogno, un’esigenza, un’istanza di lotta e riappropriazione. Dal punto di vista politico, la banlieue è la manifestazione più forte del dissenso nei confronti di uno Stato neoliberista che ha fatto dei consumi compulsivi il proprio volano. Una risposta al nichilismo imperante, alla desertificazione sociale, all’indifferenza diffusa. La prassi politica ha assunto nella banlieue, soprattutto dopo le celebri rivolte del 2005, un suo proprio linguaggio, tutto giocato nella contrapposizione con quello poliziesco e militare. Un linguaggio metropolitano, da “partigiani di periferia”, lontano da discorsi fideistici legati a credo religiosi. Così, la banlieue diventa il luogo della resistenza, della contaminazione, della solidarietà, dell’integrazione (non dell’integralismo!), un’integrazione complessa, densa di asperità, sì, ma pur sempre inclusiva. Un esperimento interessante, giudicato pericoloso dagli occhi sciovinisti e identitari dei governanti francesi, e, per questo, condannato al fallimento, all’isolamento, al degrado. In assenza di politiche sociali serie, non può esserci emancipazione culturale. E senza emancipazione culturale, il cammino verso il suadente abisso della “guerra santa” all’Occidente può diventare sempre più breve. Non è la composizione sociale delle banlieues, quindi, che ha prodotto l’integralismo islamico, ma lo Stato carogna che ha affamato e ghettizzato, dipingendo la banlieue come il margine estremo della “ville”, della città, non solo geograficamente, ma anche socialmente e culturalmente. Gli abitanti delle banlieues, però hanno reagito a tutto questo, creando forme di linguaggio ed espressione artistica capaci di ribaltare il sistema di dominazione “coloniale”, dando vita a delle vere e proprie istanze di sottrazione. Testimonianza di ciò sono il “verlan”, l’inversione delle sillabe di una parola, e la “tchatche”, l’abilità di padroneggiare differenti registri, tonalità e ritmi verbali durante le discussioni animate. Così come l’hip hop rappresenta uno strumento di rottura e, insieme, di ricomposizione delle diverse soggettività, mettendo a tacere i demoni del consumismo, dell’arrivismo, del possesso, per difendere un modo alternativo di vivere gli spazi ai confini delle metropoli, all’insegna della solidarietà e della fratellanza. Un ruolo “risoggettivante” che anche la street art è riuscita ad assumere, con le sue opere urbane che somigliano a rivendicazioni viventi più che a simboli, come nel caso di C215 (al secolo Christian Guemy), nato nella banlieue e maestro dello stencil, che privilegia ritrarre diseredati, bambini di strada, mendicanti, lanciando un messaggio di dignità e non un appello all’assistenzialismo. Ed è da questa cultura meticcia e trasversale che bisogna ripartire per scongiurare l’islamizzazione integralista di una fascia di soggetti potenzialmente fragili, tutelando tutte le diversità, e non lanciando proclami di guerra totale. Perché l’odio può essere spento solo con l’amore: quello per l’arte, per la musica, per la letteratura, l’amore che ci affratella e non ci divide, l’amore che ci rende solidali e ci fa lottare. Non la guerra, quindi, ma il sano conflitto.
Redazione @La kultura è una verdura