Camus, ragazzo di famiglia poverissima, orfano di padre, allevato da due donne analfabete (la madre e la nonna), cresciuto in un ambiente sociale miserrimo, grazie a una borsa di studio che gli diede la possibilità di frequentare anche le scuole superiori, divenne uno degli intellettuali più importanti del ‘900. Non si vuole qui cantare le lodi della scuola pubblica come “ascensore sociale”(funzione pure assolta meritoriamente). E non è certo un caso che Camus abbia usato la metafora del ponte levatoio, una metafora che esalta la dimensione orizzontale dell’incontro, non quella verticale ed elitaria dell’ascesa individuale. Quella narrata da Camus è una storia di cittadinanza. È la descrizione condotta in prima persona della concretezza di una condizione sociale fondata sull’uguaglianza. Ed è anche una testimonianza sulla possibilità che la scuola pubblica possa rappresentare lo strumento fondamentale per l’emancipazione sociale.
Di fronte al lungo e non ancora concluso aggressivo processo di ristrutturazione del sistema scolastico italiano (iniziato, è bene ricordarlo, con il ministro DS Berlinguer negli anni 90), e di fronte ad iniziative come quelle della preside del Liceo Scientifico di Cosenza che ha reso a pagamento le attività di recupero e potenziamento dei saperi, ci si domanda legittimamente: la scuola statale è ancora un ponte levatoio? Di fronte alle deportazioni di quasi mille docenti calabresi in sedi del nord Italia (con perdita di intelligenze e legami sociali) non sarebbe il caso di interrogarsi sul rapporto tra scuola pubblica e scuola statale? Sul significato del concetto di pubblico e sulle possibilità di tradurlo in un sistema coerente di azioni politiche e pratiche educative? La scuola di Camus, per intenderci, non è e non è mai stata un dato di fatto, il frutto di un’azione illuminata dello Stato, ma un campo di possibilità attraversato da contraddizioni e conflitti. L’istruzione è un terreno sul quale si riflette il conflitto sociale e, a sua volta, produce conflitto. Se il conflitto è alto, pubblico e statale tendono a sovrapporsi, quando, come oggi, prevale il mortorio sociale, le due dimensioni si allontanano. Insomma, la corrispondenza tra scuola statale e scuola pubblica deriva dalle forza dei movimenti sociali, non da un principio normativo, fosse anche costituzionale.
La scuola pubblica, per adeguarsi all’esigenza di una società aperta, deve essere nelle mani dei cittadini e degli insegnanti, e non in quelle di una burocrazia centrale irresponsabile che cerca di dare un senso alla politica ispirata dalla Fondazione Agnelli che ha come obiettivo consapevole la distruzione della scuola pubblica. Quello che è in gioco è in realtà qualcosa che a che fare con il concetto stesso di scuola e di educazione e con l’idea di società che vogliamo costruire. Il progetto “La buona scuola” voluto da Matteo Renzi riprende e porta alle estreme conseguenze molte delle scelte compiute dai precedenti governi di centro-destra e di centro-sinistra ed ha come stella polare l’ideologia neoliberista riassunta nella retorica del merito, guidato da una visione iper-statalista. Le deportazioni forzate e le chiamate dirette di questa estate sono perfettamente allineate a questa visione, insieme al profondo disprezzo per la vita e il ruolo sociale dei docenti.
Sui social e sui siti di informazione organici al criminale Renzi si è scatenata una vera campagna di denigrazione nei confronti dei docenti meridionali. Sarebbe fin troppo facile rispondere. Preferiamo finire ancora con Camus: “Noi siamo di quelli che non sopportano che si parli della miseria se non con cognizione di causa”.
CIROMA