“Go away from my land”, “Go away from my land”, “Go away from my land”. Sbatteva da una parte all’altra la trecciona biondo cenere di Amira, sfiorando appena le ingombranti uniformi dei giovani soldati israeliani che l’attorniavano, osservandola inebetiti dietro scuri occhialoni alla moda. I loro corpi non percepivano il ritmico e petulante ondulare di quei capelli ribelli, di quelle punte scolorite che paiono mille fruste impazzite.
Nulla poteva il flebile tocco di quelle setolose schegge contro il corpo multi-strato di quei piccoli golem, contro i nevi intorpiditi di quelle colonne istoriate. Niente geroglifici, però, nessun simbolo arcaico. Solo un’infinita catena di tasche e canne spianate, di elmetti slacciati e di fronti madide di sudore. Amira urlava a piena voce, il suo respiro si faceva sempre più corto, i suoi occhi color pece iniziavano a spandere gocce di petrolio. Il suo volto, ora, era un delta di lacrime, irriconoscibile.
Li piangeva tutti assieme, Amira, quei 14 interminabili anni di giochi mancati, di piedi nudi, di strade malconce, di odio e polvere, di resistenza e macerie. Li piange anche adesso, Amira, rinchiusa nella piccola e maleodorante cella della prigione militare israeliana di Ofer, in Cisgiordania. Ci è finita dentro 4 mesi fa, strappata dal suo povero letto nel cuore della notte. “Dobbiamo fargli delle domande, deve venire con noi”: un piano sequenza di pochi secondi e Amira non c’è più. Dietro la cinepresa, i difensori dell’abuso che s’è fatto Stato, del Verbo che s’è fatto sangue, palestinese. Fuori fuoco, la mano tesa di una madre, fuori fuoco, le urla di un padre, costretto in ginocchio.
La sofferenza dei giusti non fa ascolto, meglio i “piani americani”. Ecco, appunto. I “piani americani” nascondono sempre qualcosa: non vediamo mai la terra su cui poggiano i piedi. Amira scompare presto da quella tragica inquadratura, non la vediamo più, trascinata come un vecchio sacco di patate, al di sotto delle ginocchia degli uomini senza percezione.