Il MAAM, Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz_città meticcia, nasce nel 2012 come ideale prosecuzione del cantiere cinematografico e d’arte “Space Metropoliz”, il progetto che provocatoriamente invitava i 200 migranti e precari che avevano occupato la fabbrica di salami di via Prenestina a Roma a costruire un razzo per andare sulla Luna e ricominciare.
Foucault definisce dispositivo quell’apparato strategico che si regge su rapporti di forza predeterminati, miranti a imporre, dall’esterno, un certo tipo di visione del mondo. Il MAAM, ponendosi come contro-dispositivo, come opera situazionista e relazionale, tende a smascherare questi rapporti di forza e a resistere alla manipolazione? Contro quali poteri forti, credenze e luoghi comuni agisce questo contro-dispositivo?
Il MAAM è un museo “abitato” o “abusivo”, come qualcuno lo ha chiamato pensando di screditarlo. Cesare Pietroiusti, in una splendida lectio marginalis, lo ha definito un museo “reale”, perché ospitale, residenziale, utilizzabile, produttivo, polisensoriale, permeabile, leggero, pluridisciplinare, tutti punti che lo contrappongono ai musei “irreali”, quelli istituzionali, impegnati principalmente sul fronte della conservazione e della divulgazione. Con questo acronimo altisonante, il MAAM si pone in concorrenza con i grandi musei della capitale, il MACRO e il MAXXI, facendo della sua perifericità, della sua non asetticità, della totale assenza di fondi i suoi punti di forza. Il MAAM è una barricata d’arte a difesa dell’occupazione, un super-oggetto d’arte collettiva, un modo per contrastare l’effetto enclave di questa cittadella costretta a chiudere il cancello per la minaccia sempre presente dello sgombero coatto (in questo senso funziona un po’ come una “trappola”). È anche un modo di sperimentare l’utopia di vivere in un’opera d’arte totale.
Come ci ha mostrato la latino-americana filosofia della liberazione, il meticciato è quel trait d’union che congiunge culture ed etnie diverse, quel punto di contatto tra mondi diversi che si sono dovuti o voluti incontrare. Per quanto riguarda il MAAM, possiamo parlare di un meticciato artistico-sociale che ha messo in relazione artisti e “occupanti” provenienti da popoli anche molto distanti tra loro? Possiamo definire il MAAM una sorta di “incubatore” all’interno del quale l’arte si configura come liberazione, anche in senso politico e sociale?
L’arte è sempre una istanza di libertà. In questo senso appartiene a tutti.
Venendo alla questione del “meticciato” mi piace immaginare il MAAM (che lo ricordo è il museo di Metropoliz_città meticcia) come la cappa di Arlecchino di Michel Serres, un grande mosaico multicolore e multiforme, un assemblaggio a scala urbana, un luogo babelico dove si sprigionano e si incontrano, contaminandosi, tutti gli immaginari possibili. Arlecchino, nel libro del filosofo francese, ad un certo punto si spoglia. I suoi abiti fatti di pezze cadono uno ad uno ma anche il corpo nudo di arlecchino è tatuato, zebrato, iridato, cangiante, somiglia ad una carta geografica perché Arlecchino ha molto viaggiato e porta sulla pelle i segni del suo peregrinare. Arlecchino continua a sfogliarsi come una cipolla fino a trasformarsi in una massa abbagliante, tutta bianca (il bianco è la somma di tutti i colori). Arlecchino si trasforma in Pierrot lunaire, nell’Imperatore della luna. Il MAAM è il museo sulla Luna.
Metafore a parte, tra pochi giorni, lo dico per inciso, grazie alle tecnologie messe in campo dal progetto di space art di Daniela de Paulis, invieremo davvero il MAAM, in compagnia del Terzo Paradiso di Michelangelo Pistoletto, sulla Luna.
Il MAAM nasce come ideale prosecuzione del lavoro svolto nell’ambito del cantiere cinematografico ed etnografico che ha dato vita a “Space Metropoliz”, un esperimento di aggregazione sociale e riqualificazione urbana, più che un semplice documentario, nel senso tradizionale del termine. Pensi che il cinema possa essere uno strumento ancora valido per dare immagine corporea a una ricerca antropologico-artistica che si è svolta sul campo come la vostra?
Abbiamo usato il “cinema” come cavallo di troia per entrare a Metropoliz e raccontare questo luogo e i suoi abitanti in un modo diverso. Io e Fabrizio Boni (il copilota di “Space Metropoliz”) di documentari ne abbiamo fatti molti, uno anche insieme, C’era una volta Savorengo Ker, la Casa di Tutti, dedicato al modulo abitativo in scala 1 : 1 realizzato al Casilino 900 (il campo rom più grande d’Europa) dal collettivo di artisti e architetti Stalker. Questa volta abbiamo deciso di non “sparire” dietro alla telecamera, ma di provare a mettere in moto dei processi, attivare delle situazioni. Il cinema era la scusa e lo strumento per documentare questi processi.
Possiamo definire il MAAM, nel suo complesso, come una realtà di “movimento” che, esattamente come avviene all’interno di collettivi, comitati, associazioni, prende tutte le sue decisioni a livello esclusivamente assembleare? Da questo punto di vista, che tipo di risposta, anche culturale, dà il MAAM alla dilagante emergenza abitativa che affligge il nostro Paese?
Il MAAM è un’opera collettiva, non un collettivo, realizzata con la collaborazione degli abitanti di Metropoliz e dei Blocchi Precari Metropolitani, i padroni di casa. Ogni artista realizza uno o più tasselli di un mosaico partecipando alla costruzione di questo super-oggetto customizzato, tatuato, meticcio, arlecchino, che è il MAAM, che può essere paragonato ad una cattedrale laica contemporanea. Le opere vengono presentate e accolte dall’assemblea generale o dal gruppo che si occupa di valutare i progetti culturali via via proposti a Metropoliz. Ogni opera viene realizzata a spese dell’artista. Il MAAM non fa uso di denaro, non richiede finanziamenti e non fa crowdfunding. È un gioco fondato sul “dono” e sulla reciprocità.
Naturalmente ogni artista che lavora al MAAM sottoscrive di fatto le istanze del movimento di lotta per il diritto all’abitare, denuncia e si oppone alla speculazione e alla finanziarizzazione degli immobili, combatte l’articolo 5 del Piano Casa che nega la residenza a chi abita in spazi occupati.
Ogni nucleo familiare, all’interno del MAAM, è responsabile e custode di un’opera realizzata da artisti di fama nazionale e internazionale. Ci vuoi ricordare, tra i tanti “contributi” presenti, alcuni dei più rilevanti?
Esiste al MAAM una Pinacoteca Domestica Diffusa, con oltre trenta lavori ognuno custodito in una casa, ed esistono anche alcuni progetti site specific realizzati nelle abitazioni, la stanzetta di Fatima ad opera di Veronica Montanino o quella di Alin dipinta da Mauro Sgarbi. A cui si aggiungerà a breve la serie realizzata da Mariano Filippetta “It’s very very home”, o il nuovo lavoro di Mauro Maugliani. Entrare nelle case vuol dire guadagnare il nucleo del museo abitato. Questo vale per gli artisti, come per i visitatori. Uno degli obiettivi del MAAM è favorire (a volte direi forzare) l’incontro. In qualche modo l’arte fa da passepartout, i muri dipinti, le grandi installazioni sono anche una sorta di “trappola” che serve a mettere in relazione mondi che altrimenti non si incontrerebbero. Le persone che vengono a vedere il lavoro degli artisti e le mostre scoprono un’altra città, si confrontano con la gravità dell’emergenza abitativa in una città come Roma che ha la metà degli immobili sfitti, sono portati a riflettere sui meccanismi speculativi determinati dalla finanziarizzazione degli immobili, ecc.
Marx definisce feticismo quel carattere fantasmagorico che s’appiccica ai prodotti del lavoro non appena questi vengono trasformati in merci. Non pensi che, da questo punto di vista, l’istituzione museale, oggi, almeno per quanto concerne l’arte contemporanea, abolendo il contatto con gli autori delle opere, ingabbiando le stesse in circuiti spaventosamente simili e pre-determinati, esigendo costi d’ingresso che paiono più dei salassi, risenta del “vecchio” problema sollevato da Marx? Il MAAM, in questo senso, può rappresentare il viatico per ricomporre la frattura tra chi produce, chi allestisce e chi fruisce?
È senza dubbio così, aggiungerei anche chi pulisce! Il presidente di Federculture dopo che gli avevo detto che al MAAM non ci servivano i soldi, mi ha detto, davvero irritato (forse pensava che lo stessi prendendo in giro): “E come le pagate le ditte delle pulizie?”.
Pensi che realtà simili a quella del MAAM possano sorgere in altre parti d’Italia? Che consiglio ti sentiresti di dare alla città di Cosenza, che tenta di difendere con le unghie e con i denti i residui spazi sociali dall’imperversare dell’abusivismo edilizio? Ci dai qualche “dritta” per ripensare soggettivamente lo spazio urbano?
Il MAAM può essere un modello replicabile e di fatto sta svolgendo un interessante ruolo di impollinatore culturale e artistico, oltre che politico. L’arte si sta rivelando uno strumento vincente. Dopo il MAAM lo hanno capito il Porto Fluviale, la Cavallerizza Reale, ora stiamo organizzando una sorta di biennale indipendente della arti nell’area industriale dismessa nel cuore della Milano dell’Expo occupata dai “pirati”. Fare o non fare, non c’è provare: Yoda dixit.
Giuseppe Bornino