Zibaldone

Still Life: un manifesto politico-esistenziale in movimento Intervista a Stefano Ricci

giovedì 6 novembre 2014 ore 13:20, Teatro Morelli, Cosenza

Arrivo al Teatro Morelli attraversando il solito traffico di Viale della Repubblica. È l’orario di punta. Piove. Le automobili si moltiplicano a dismisura così come le mie aspettative, mentre nella mia traballante Seicento grigia ascolto Radio Ciroma. Parcheggio a là Viva il parroco, beccandomi gli ammonimenti dei vegliardi del teatro. Entro e chiedo di Stefano Ricci. Dopo qualche minuto mi si fa incontro un uomo delicato e slanciato, dai modi gentili e affabili. Ci accomodiamo su due delle poltroncine disseminate nel foyer. Di fronte a noi le ampie vetrate ci mostrano irriverenti gli alti muriccioli che difendono le inoffensive acque del Busento. Domani andrà in scena “Still Life”, l’ultima fatica di Stefano Ricci e Gianni Forte. Il loro modo di fare teatro coinvolge, incanta, disturba. I loro spettacoli si sono ritagliati, in Italia come all’Estero, una fetta importante di quella torta che risponde al nome di “nuovilinguaggiespressividelcontemporaneo”. Ma rompiamo gli indugi, ché Stefano deve ultimare i preparativi per domani.
Di cosa parliamo quando parliamo di “contemporaneo”, un aggettivo, questo, da sempre, assai abusato e controverso? Cosa definite voi, oggi, contemporaneo a teatro? E, in questa valutazione, cosa pesa maggiormente: la scelta del testo, l’allestimento scenico, i legami con l’attualità o una connivenza di tutti e tre questi elementi?
È una riflessione che continuamente proviamo a tracciare quella sul contemporaneo. Parte tutto da una difficoltà, quella di interpretare il reale, il nostro quotidiano, innanzitutto come persone e poi come artisti. La difficoltà è anche quella di percepire il contemporaneo rispetto a dei perimetri geografici. Noi abbiamo la fortuna di poterci muovere, di poter lavorare su un territorio non solo locale, ma a livello europeo. Gianni Forte vive a Parigi ormai da 2 anni, quindi c’è un continuo confronto sul percepire quali siano i veri battiti di un tempo contemporaneo. Non parte sicuramente da un testo, ma da un’urgenza, una necessità di codificare un tema, una presenza che alberga in noi per diverso tempo fino a che non arriva in superficie e chiede di essere edificata. In questo senso, il tentativo è quello di entrare in contatto con il reale, perché c’è una difficoltà oggettiva a relazionarsi con gli altri, con quello che ci circonda. Attraverso l’arte, attraverso una ricostruzione di una visione, che è la nostra, ma che stride con il tempo reale, cerchiamo di gettare un ponte – attraverso l’elemento teatrale, il buio dello spazio – e ricostruire un reale che non è meno tangibile di quello che ci appartiene alla luce del giorno, ma che sicuramente ha una visionarietà, e quindi un abbrivio differente, che è il nostro modo di riprodurre il contemporaneo. Il contemporaneo diventa un hic et nunc, che ha a che fare molto con il valore fantastico, individuale di ciascuno di noi. Probabilmente, il battito del contemporaneo è proprio questo: riuscire a guardare con gli occhi, ma anche riuscire a percepire e sviluppare un senso in più che troppo spesso, alla luce del sole, viene dimenticato.
Il vostro è un teatro di grande impatto visivo, un teatro fatto di immagini, scene. Da questo punto di vista, quant’è stata rilevante l’influenza del cinema? Ci sono grandi maestri cui vi ispirate, più o meno esplicitamente?
L’impatto visivo è quello che arriva prima nell’esposizione di un lavoro, di un’indagine che noi presentiamo, ma non è soltanto questo, perché c’è un viaggio totalmente verticale al centro dell’anima e un lavoro sullo stato emotivo, che è la spina dorsale di tutto, da cui poi vengono sviluppate le diverse visioni estetiche. Quindi, il cinema, ma come il cinema la letteratura e tutto quello che appartiene al nostro tempo e non al nostro tempo. Io e Gianni Forte ci nutriamo di stimoli che vengono dal cinema, dalla performing art, dalla pittura, dalla musica. Ci sono maestri del cinema di cui ci siamo imbevuti, siamo rimasti a bagnomaria nell’humus di questi artisti. Ci sono registi più visionari di altri: noi citiamo sempre Fellini e Lynch, ma anche Lars von Trier. Chiunque riesca a dare una sguardo, una visione propria del reale, ci fa sentire in comunione rispetto a un ricalibrare e a un rimodulare un tempo presente che non può più essere raccontato attraverso un’immagine fotografica.
Portate in scena, qui, a Cosenza, Still Life, un manifesto in movimento contro il “bullismo omofobico”. Perché avete sentito l’esigenza di dedicare uno spettacolo a questo tema? Ritenete, in tal senso, che, oggi, si possa fare politica, nel senso greco del termine, anche facendo teatro?
Il teatro è politica, è esclusivamente politica. Purtroppo, in Italia, ormai da 20-30 anni, da quando il potere della televisione ha contaminato tutto, il teatro si è trasfigurato, è diventato qualcosa di deteriore, una roba da intrattenimento post-prandiale, qualcosa che ha molto a che fare con l’oppio che ogni sera viene propinato a milioni di telespettatori. In questo senso, il nostro teatro è politico, perché cerca di scuotere le coscienze. Abbiamo proposto questo lavoro, non tanto per il fatto di cronaca, ma perché ci ha sempre incupito, preoccupato il fatto che proprio nella scuola, nel momento dell’adolescenza – in cui un ragazzo avrebbe tutte le carte per lanciare la sua esistenza verso qualsivoglia traiettoria perché hai la vita in mano – ci sia un gruppo, “il” gruppo, che allontana qualcuno che propone qualcosa di differente; e sta proprio qui il marcio, il verme della struttura dello stato italiano che impedisce la possibilità della fantasia. E questo che proponiamo è più una conferenza, un manifesto, che uno spettacolo, sull’omofobia, ma anche sul crollo del valore della fantasia in questo Paese. La fantasia viene vissuta come un difetto, quando dovrebbe essere un valore aggiunto, una qualità. In questo senso, nel teatro che facciamo c’è un coinvolgimento politico, c’è il fatto di esporsi in prima persona, con la nostra faccia, con la nostra esistenza, cercando di raccontare qualcosa che vada oltre il gregge in cui questo stato da anni ormai ci costringe e ci ha abituati a pensare di essere.
Parafrasando Antonin Artaud, qual è il rapporto che esiste, secondo voi, tra il linguaggio verbale e quello non verbale? Per Artaud, sappiamo bene, che il gesto, la voce, il movimento, il costume rappresentavano elementi spesso più significativi, più simbolici rispetto alla parola. In questo senso, vi potete collocare in questo solco teatrale che Artaud, seppur in modo un po’ “fallimentare” (solo sul piano della realizzazione concreta, però), ha contribuito a inaugurare?
Qualunque tipo di esperienza non è mai fallimentare, nel momento in cui traccia un segno preciso rispetto a una storia. Credo che nel campo espressivo, nel nostro almeno, ci sia un’assoluta democrazia e non la monarchia del verbo. Non crediamo che la parola o il raziocinio siano l’unico tasto da suonare in una composizione. Crediamo che tutto abbia valore, che l’essere umano, quindi il performer che inscena, sia un motore di espressività a 360°, e quindi noi cerchiamo di farlo esprimere attraverso tutte quelle possibilità che un sistema architettonico come quello del corpo umano riesce a evidenziare. E, così, riusciamo a far parlare le unghie, i capelli, la pelle, il cuore, qualunque cosa sia sopra e sotto lo strato epidermico.
Un’ultima domanda, diciamo, di rito. Qualche anticipazione su lavori e progetti futuri?
Presenteremo la nostra prossima produzione nel 2015, a Mosca, un adattamento da un romanzo che è un caposaldo della letteratura russa di questo secolo “Noi” di Zamjatin con Kirill Serebrennikov, che è il produttore del “Gogol Center” di Mosca. In Italia, invece, nella nuova stagione, lavoreremo su “Gattopardo” con il “Teatro Biondo” di Palermo e successivamente daremo vita a un’operazione con il “Teatro stabile di innovazione” di Udine, che sarà un adattamento teatrale da “Petrolio” di Pier Paolo Pasolini.

Sono qui che ancora batto le mani, piccolo e insignificante sacrificio fisico se paragonato al sangue e sudore versato dai protagonisti di “Still Life”. Degli atleti del cuore, così li avrebbe chiamati Antonin Artaud, non degli attori, dei moderni congegni a orologeria, più che delle maschere. Sono qui che ancora batto le mani, mentre molti degli spettatori si alzano per salire sul palco, per scrivere un nome su un cartellone bianco, forse il nome di chi amano, di chi non c’è più, di chi ha subito la gogna della discriminazione, come si racconta in “Still Life”. Niente retorica, però, solo accenni poetico-dinamici al dolore, solo sguardi fugaci e impalpabili dentro la scatola nera della tragedia, che non è mai di uno solo, ma di tutti, perché quando si precipita nell’abisso dell’incomprensione razzista, dell’incomunicabilità fascista, non c’è nessuno che possa sentirsi autorizzato a chiamarsi fuori, tantomeno lei, quella puttana, che tutti chiamano Italia. Sono ancora qui che batto le mani, perché quello che ho visto mi ha emozionato e sobillato, divertito e straniato. Andare a teatro fa bene, perché scioglie i nervi, riannoda i fili spezzati, segna un punto di estatica quiete nell’irreversibile flusso continuo di indifferenza, dove uno vale l’altro, dove uno vale uno. Sono ancora qui che batto le mani, ma presto sarò fuori di qui, con in tasca un piccolo manifesto, un manifesto politico-esistenziale, perché il teatro, almeno quello (qualcosa da ridire Stato?), è ancora dalla parte della vita. Still life, quindi.
Giuseppe Bornino
(tratto da “Rivista Scioc” #0)

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