Una bimba siriana gattona, con sguardo incuriosito, verso il cordone di poliziotti turchi che sbarra ai profughi il passaggio verso la Grecia. Un’altra bambina, sempre siriana, offre con disarmante spontaneità un biscotto a un imbarazzato poliziotto ungherese che controlla il confine serbo-rumeno. Ancora una bambina, ancora siriana, che gioca felice con un poliziotto danese divertito.
Tre fotografie, tre immagini, tre assaggi di umanità.
Ma perché queste immagini, che sospendono miracolosamente l’orrore per qualche impercettibile istante, interrompendo la retorica dell’emergenza e il circuito comunicativo della paura, ci sorprendono tanto, generando in noi moti sinceri di tenerezza, empatia e umanità? Proprio perché, ci verrebbe da rispondere, l’umanità è diventata uno stato d’eccezione che, solo raramente, e quasi pateticamente, riesce a contrastare l’indisturbato dominio di quei macro e micro dispositivi che si sono attaccati alle pareti del nostro inconscio con la forza di ventose risucchianti.
Il potere, scriveva Slavoj Žižek, abita il nostro inconscio, strutturando e orientando i nostri comportamenti, sempre più modellati secondo un ordine simbolico di cui siamo vittime. Certo, dobbiamo aggiungere, non tutti siamo vittime sacrificali dell’ordine simbolico egemone, naturalmente. Alle nostre spalle aleggiano i fantasmi, neanche troppo ectoplasmatici, dei carnefici, di coloro i quali pretendono di riscrivere, alterare, deviare il corso della storia a suon di dispositivi. E, allora, da qui, a cascata, apparati statali, fonti di informazione, organismi internazionali, senza pietà, hanno eretto le fondamenta di una moderna torre di Babele, che vorrebbe tenere forzosamente assieme ciò che il divenire storico, per sua natura, tende a separare, disperdere, allontanare.
Così, il nostro inconscio si presenta come il campo di battaglie combattute su terreni che neanche ci appartengono. Che i suoi meandri fossero spesso insondabili e criptici, lo sapevamo. Forse, però, non eravamo abituati a convivere con un inconscio subalterno, schiavo di un ordine del discorso costruito con chirurgica spietatezza dai gruppi dominanti di cui sopra.
Quella all’umanità è diventata una vocazione minoritaria. Il nostro inconscio è diventato terreno di conquista per spacciatori di odio, coltivatori di razzismo, fomentatori di paura.
Ma torniamo alle nostre tre fotografie.
Ognuna di quelle immagini, in realtà, è una diapositiva sbiadita del nostro inconscio che resiste, si ribella, tentando disperatamente di tornare vivido, ovvero egemone. In ognuna di quelle immagini, un dispositivo, seppur per un attimo quasi intangibile, crolla.
Lo sguardo incuriosito della bimba che gattona verso il cordone di polizia ridicolizza il dispositivo securitario e repressivo.
Osservate, poi, i contro-sguardi che alcuni poliziotti lanciano alla bimba. In essi è rappresentata una vasta gamma di sensazioni, diverse e contrastanti tra loro. Prendiamone solo cinque. I primi cinque, partendo da sinistra. Il ventaglio di espressioni che incontriamo ci suggerisce, procedendo con ordine: altera diffidenza, stranita compassione, divertita tenerezza, distacco, indifferenza.
Lo sguardo imbarazzato del poliziotto ungherese che rifiuta l’inaspettato dono, invece, incarna il pudore e la vergogna che uno Stato, cosiddetto civile, non ha saputo provare, nel momento in cui ha innalzato muri di cemento e filo spinato. Qui, a crollare, è il dispositivo dello Stato-nazione, morbosamente geloso dei propri confini.
E, infine, gli sguardi del poliziotto danese e della bimba siriana che si incrociano spensierati mettono in discussione il dispositivo dell’ordine gerarchico, aprendo alla sincera accoglienza.
Dispositivi che crollano, ordini simbolici che si ribaltano, speranze che si riaccendono.
L’enorme potere delle immagini. Bel miracolo, sì, ma poi?
Il giorno in cui fotografie del genere non ci sorprenderanno più, sarà veramente un giorno di festa.
Il giorno in cui il nostro inconscio smetterà di essere subalterno.
Il giorno in cui saremo in grado di organizzare un contropotere capace di stravolgere permanentemente l’ordine del discorso disumanizzante.
Il giorno in cui quegli sguardi non saranno più stati di eccezione, ma lampi d’insorgenza.
G.B.