Una città è fatta “di relazioni tra le misure del suo spazio e gli avvenimenti del suo passato”. Tutto ciò che c’è da sapere di un luogo rifluisce dai suoi ricordi, che imbevono le vie e i quartieri e li dilatano.
“Ma la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee di una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole”.
Per conoscere una città, per arrivare a comprenderne qualcosa, sentirne la storia addosso, rispettarne il valore, indovinare nelle vie i tratti umani degli abitanti, bisogna poterla abitare.
È quello che cercano di fare i ragazzi di Restart Cosenza Vecchia, con le loro iniziative nelle piazze, nelle case abbandonate e nelle vecchie corti del centro storico della città. E mentre li ascolto parlare, e osservo sulle pareti di un rudere linee bianche appena visibili che tracciano mobili, sedie e una lampadina che scende da un soffitto inesistente, mi viene da cercare nella testa quelle parole di Calvino.
Siamo andati a Cosenza. Con noi i ragazzi di Ciarapanì e Giulia, Rossana, Anna ed Emilia in rappresentanza di Santa Lucia. L’arcipelago di brecciolino bagnato sul quale siamo atterrati ci segnalava che il tempo non era stato dei migliori, ma a scrutare il cielo eravamo fortunati. Giuseppe, Armando e Stefano ci aspettavano al Centro Popolare Occupato Autogestito Rialzo: sulle pareti e le lamiere di fronte a noi, scritti e graffiti di dieci anni di storia di uno spazio tenuto e difeso mentre tutto intorno piombava con le betoniere la città nuova; un luogo visibilmente fragile, impastato della stessa sostanza resistente di quelli che lo animano da tempo. Nelle ex officine ferroviarie occupate si respira quell’inconfondibile aria di cantiere sociale e culturale permanente, consapevole che una città ha bisogno di spazi in cui riconoscersi ed esprimersi, tanto più vivi e veri quanto più aderenti alle esigenze e ai sogni dei suoi abitanti, che plasmano inconsapevoli quegli avvenimenti e quei ricordi così delicatamente raccontati da Calvino, ovvero tutte quelle cose che fanno di una città quella città, e non un’altra.
Dietro l’angolo, oltre le tende dello spazio interreligioso, all’ingresso del mercatino del Gruppo di Acquisto Solidale, spiccava colorato un rosone di barattoli di miele locale. Era il nostro punto di partenza. Lungo il viale Stefano ci ha raccontato della metropolitana che minaccia la presenza del centro sociale e Damiano, che insieme agli altri di Ciarapanì sta restituendo alla vista e ai piedi dei lametini i giardini Lanzo del Timpone, mi ha rievocato gli orti che ancora resistono lungo il torrente Canne e gli alberi di agrumi, bisognosi di una potatura. Tra le molte maestranze antiche che abitano Santa Lucia verranno fuori le mani giuste.
La scoperta di Cosenza Vecchia ha avuto inizio quando abbiamo cominciato a perderci. Un antropologo, che dell’abitare ha fatto il suo argomento di ricerca, ha scritto che perdersi è il punto di partenza dell’ambientamento, perché è ciò che avviene quando si accetta di andare oltre il conosciuto e si entra davvero in relazione con un posto. Oggi, nella condizione tecnologica, moderna e altamente normata di abitanti, perdersi ha il sapore di un errore, di una perdita di controllo o di un atto mancato. Invece per noi ha significato non mancare l’appuntamento con uno dei momenti più interessanti, l’inizio vero della nostra visita.
Risalendo il centro, i nostri occhi hanno seguito l’indice puntato di Giuseppe che ci mostrava un’alta parete su cui campeggiavano rettangoli ben definiti e ben allineati come quadri. Erano l’impronta rimasta di stanze, bagni, salotti di un palazzo crollato a maggio del 2015. Al suo posto si è aperta una piccola piazza, adibita abusivamente a parcheggio e discarica. Lo stupore e la tragica suggestione per lo stato di abbandono ancora evidente a distanza di due anni ci hanno condotto dritti tra le precise e puntuali parole di Marta, che ci ha spiegato l’incapacità dolorosa e la mancanza palese di volontà da parte del comune di gestire gli spazi urbani come un patrimonio collettivo e condiviso, affinché le esigenze e l’impegno di chi li vive in prima persona trovino un interlocutore, un riconoscimento, un sentire comune nel pubblico, inteso come comunità. Il pubblico, invece, si limita al ruolo di amministratore, si chiude dentro confini istituzionali e prescrittivi, addita ai privati la colpa e a loro addossa l’onere della soluzione, senza intervenire, dimentico del legame indissolubile che unisce l’habitat alle istanze della vita sociale: preferisce perciò un umiliante degrado a tutti accessibile, invece che accettare sinergia, continuità, interazione e relazione che da sempre costituiscono le basi naturali delle forme dell’abitare, e blocca i progetti, le proposte, le iniziative di chi, privo di risorse, ma ricco di visioni, frequenta quotidianamente quei luoghi e sente il bisogno di interagire con gli spazi e, nello specifico, con quello squarcio doloroso che si è aperto in pieno centro.
Brunella intanto ci ha captato dall’alto. È stato questo il momento in cui abbiamo fortunatamente perso la direzione e siamo finiti in casa sua: caffè per tutti e racconti, alcuni drammatici, altri divertenti, sul comitato Piazza Piccola, nato per contrastare lo stato di abbandono del centro, sull’incendio di quest’estate, costato la vita a tre persone, e ancora una volta sul difficile rapporto con le istituzioni. Ho sentito nettamente che tutte quelle riflessioni, esposte con una determinazione che arrivava da una lunga frequentazione di certi temi e problematiche, ci riguardavano da vicino. Anche nel centro di Nicastro, per riconoscere la bellezza dei quartieri, l’unica interlocuzione possibile, e l’unica che valga la pena costruire, è quella con la comunità di base che da anni informalmente anima e tiene viva l’autenticità dei luoghi, marginalizzati dal resto della città e fuori dai circuiti della socialità, ma estremamente ricchi, con una modestia rivoluzionaria libera dalle velleità di immagine e comunicazione.
FuoriLuogo, come RestartCosenzaVecchia, si muove tra il visibile e l’invisibile, persegue la necessità di ritrovare una bellezza e una varietà che non si è più in grado di vedere. Giuseppe e Armando ce lo hanno spiegato chiaramente nella piazza da loro dedicata, con una targa gialla, a Totonno Chiappetta, “attore sociale”: l’obiettivo è stimolare, attraverso piccole animazioni, concerti, reading e spettacoli, il riconoscimento dei luoghi, la socialità in spazi non più consueti, la suggestione poetica, l’uscita dal privato verso gli spazi di condivisione. Un cane intanto, dietro una fila di lenzuola bianche stese ad asciugare, si sporgeva da un balconcino senza ringhiera e ci osservava.
Il luogo simbolo di Restart lo abbiamo raggiunto scivolando di fianco alle terme romane custodite in un palazzo sempre chiuso. Ce le ha indicate, con amara ironia, Marta. Nella piazza di Santa Lucia abbiamo piantato tutti insieme una Rogianella, una varietà di ulivo tipica del cosentino, a suggello simbolico dell’incontro e dell’auspicata crescita comune che ne potrà seguire. Questo discorso lo abbiamo rimandato di solo poche ore.
Per il momento non avevamo ancora finito di perderci: siamo passati sotto la “ficuzza” che ha affondato le radici dentro le pietre di un palazzo, rievocando alla mia mente la parola “caparbietà”; abbiamo ascoltato le storie degli eventi organizzati nei portici dei palazzi antichi grazie alle disponibilità, anche materiali, dei residenti stessi; abbiamo incontrato, infine, del tutto fortuitamente, Arianna di Reggio, che disegnava pesci e una pioggia di fiori sulla grande vetrina dei locali che ospitavano il “Cose Belle Festival” e Francesco di Amaroni, che nel suo piccolo borgo organizza un evento residenziale di artisti di strada. Ci siamo scambiati i contatti per future contaminazioni.
Al bistrot del Teatro dell’Acquario, dopo esserci seduti a tavolata intorno a dell’ottimo cibo, ci siamo ritagliati un momento per riprendere il discorso sul seguito possibile di una giornata come quella. Giuseppe ci ha esposto il proposito di Restart di dare vita ad un Osservatorio regionale sui centri storici e i quartieri. FuoriLuogo ha accettato l’idea. Partendo dalla formula di Franco La Cecla “fare mente locale”, che indica quella speciale capacità cognitiva degli individui di “localizzare il pensiero” e “mettere le proprie doti di comprensione sopra un luogo e un contesto”, l’invito, ci pare, sia quello di fare “Rete Locale”, ovvero mettere insieme tutte le realtà regionali che, partendo ognuna dai proprio luoghi, sentono la necessità di riscoprire e rilanciare dal basso la qualità e l’impegno della vita negli spazi urbani.
Il primo passo era già alle nostre spalle. Il primo passo è stato proprio l’incontro di domenica, “se è vero”, come recita puntuale un post di Restart, “che ogni rete nasce con un nodo…”.