È forse in vigore in Italia, come ha detto l’avvocatessa catanese Rosa Emanuela Lo Faro, il «reato di solidarietà»? Noi, per la verità, preferiamo parlare di «reato di soccorso», in quanto ciò che l’inchiesta della Procura di Catania tende a mettere sotto accusa non è soltanto un’attitudine virtuosa.
È, piuttosto, un’attività che costituisce un fondamentale diritto umano, giuridicamente fondato e internazionalmente riconosciuto, da cui discendono obblighi e garanzie.
Ma comunque lo si voglia chiamare, quanto accaduto suscita stupore. Tanto più se si considerano i precedenti.
Il procuratore capo di Catania, Carmelo Zuccaro, un anno fa, intendeva «aprire un’inchiesta per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina nei confronti delle Ong» perché alcune di queste «potrebbero essere finanziate dai trafficanti»; e perché le loro attività mirerebbero a «destabilizzare l’economia italiana» e la stessa sicurezza nazionale.
Ma, poi, lo stesso Zuccaro dovette riconoscere di non disporre di «alcun fondamento probatorio» in grado di suffragare le proprie ipotesi accusatorie e «motivare l’apertura di un fascicolo».
Ora, la Direzione distrettuale antimafia, che fa capo alla Procura di Catania, ritiene di aver trovato la pistola fumante.
E, così, la campagna di delegittimazione delle Ong può riprendere vigore.
Ma come si è arrivati a questo?
La scintilla nuova delle passioni antiche di chi vuole squalificare un’azione tanto sacrosanta quanto legittima, trova il suo primo pretesto giovedì scorso.
La nave Open Arms, dell’organizzazione spagnola Proactiva, una delle tre Ong ad aver firmato il Codice di condotta voluto dal Ministero dell’Interno, la mattina di quel giorno risponde a un Sos lanciato da un gommone carico di persone (in gran parte eritree) e segnalato dal Centro Nazionale di Coordinamento della Guardia Costiera.
Ma, poi, quest’ultima, contraddittoriamente, dirà che il controllo delle operazioni doveva passare ai libici. Ma il barcone si trova a oltre 70 miglia dalla costa libica – attenzione: in acque internazionali – e la Open Arms inizia le operazioni di soccorso, recuperando per primi bambini e donne.
Mentre i volontari stanno distribuendo i giubbetti salvagente, un pattugliatore della marina libica si interpone tra loro e la Open Arms, impedendo di portare a termine il recupero. Con le armi in pugno, gli uomini della Guardia costiera libica minacciano l’equipaggio delle lance. I toni forti e le parole concitate dello scambio intercorso in quei minuti sono raccolti in un video: «Tre minuti. Vi do un ultimatum di tre minuti per venire qui. Se non ci consegnate i negri li ammazzo», così un ufficiale della marina libica al megafono. I soccorritori si interrogano su quelle parole urlate in varie lingue: «Ha detto che se non ce ne andiamo in tre minuti, li ammazza»; «Abbiamo un problema, abbiamo tre minuti per consegnare i migranti». L’ufficiale minaccia di aprire il fuoco: «Avete tre minuti per consegnarceli e stanno diventando tre secondi».
A questo punto, alcuni militari libici salgono sulle lance: la situazione di grande tensione va avanti per quasi due ore, poi i libici consentono alla Open Arms di completare le operazioni.
Dopo quella tragedia sfiorata, per 36 ore, l’imbarcazione naviga lentamente verso nord nell’attesa di disposizioni della Guardia costiera italiana su dove attraccare, con 218 profughi a bordo, tra i quali molti bisognosi di cure urgenti.
In quelle ore, che precedono il via libera da Roma per l’attracco in Sicilia, l’equipaggio della Open Arms attua il trasbordo verso Malta di una madre con la propria figlia neonata, in gravissime condizioni di salute.
Finalmente, intorno alle 18 di venerdì, arriva da parte delle autorità italiane l’assegnazione del porto di Pozzallo, dove l’imbarcazione giunge il sabato mattina.
Il capitano, Marc Reig Creus, e la capo-missione, Ana Isabel Montes Mier, vengono interrogati per diverse ore da agenti della squadra mobile di Ragusa e dello Sco di Roma, fino a che, domenica sera, arriva il provvedimento di sequestro della nave e gli avvisi di garanzia per i tre, considerati responsabili di quell’intervento di soccorso in mare.
L’avvocato Alessandro Gamberini, legale della capo-missione, ritiene che il reato di associazione a delinquere sia palesemente insussistente.
D’altra parte, un comunicato dell’Asgi (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione) ricorda che: «Nessun rifugiato può ottenere protezione in Libia non sussistendo alcuna norma di diritto interno che lo preveda e tutti i rifugiati, comunque presenti sul territorio libico, sono oggetto di detenzione arbitraria nelle carceri, in condizioni disumane e in generale sono oggetto di violenze sistematiche».
È a questo destino, che l’Ong Proactiva avrebbe dovuto indirizzare i profughi dopo averli sottratti alla morte in mare?
Luigi Manconi
Federica Graziani